Mali
Diario di viaggio (di Lucio Magi, Gennaio 2004)
La mia prima volta in Africa ha lasciato il segno.
Mi ritrovo quasi per inerzia ad ascoltare “Talking Timbuktu”, il CD piú famoso di Ali Farka, e ripenso al viaggio fantastico terminato poco più di una settimana fa.
Una delle cose che più mi hanno colpito del Mali é stata l'intensità con cui si percepiscono i suoni, i sapori e i colori.
I rumori dell’Africa sono qualcosa che non si dimentica.
Una notte, nel villaggio Dogon di Banani, dopo avere sistemato la tenda sul tetto piatto di una delle case di fango, tutto era tranquillo. Dopo una giornata di cammino alla base della falesia si sentivano solo i padroni di casa preparare la cena e i ragazzi che ancora cercavano di vendere qualche maschera ai pochi turisti presenti. Improvvisamente dopo il tramonto, siamo stati sommersi dalle voci e dalle percussioni che accompagnavano una veglia funebre nella parte alta del villaggio. Il ritmo dei tamburi e la nenia dei canti ci hanno accompagnato per tutta la notte e credo che, anche se probabilmente a qualcuno hanno rovinato il sonno, non poteva esserci modo migliore per passare l’ultima notte nella terra Dogon.
La musica dell’Africa, che tanto amo da sempre, dal vivo é ancora più bella.
Una sera ci siamo ritrovati a cenare in uno dei ristoranti sul Niger, a Mopti. Il locale era stato scelto quasi per caso, senza una particolare ragione, ma ancora una volta la buona sorte ci ha premiati. Il patio ha cominciato ad animarsi e a riempirsi di gente del posto che si riuniva per una festa attorno a un lunghissimo tavolo. Tutti gli invitati sfoggiavano i loro vestiti più belli, e si mescolavano ai saccopelisti con cappellini di lana peruviani e agli altri turisti tirati a lucido nei loro vestiti da “safari”. Poi é arrivata una band che ha cominciato a suonare musica dal vivo e dire che era travolgente non credo basti a rendere l’idea. Non riuscivo più a staccarmi dalla base della scala a cui mi ero appoggiato dopo la cena per ascoltare e cercare di seguire il ritmo. Bellissimo.
Che dire del profumo delle spezie nei mercati, dei succhi dolciastri che spesso accompagnavano i nostri pasti e anche degli odori meno gradevoli per noi europei, come quello del pesce lasciato ad essiccare nei villaggi dei pescatori e nei porti sul Niger. Sono entrati a far parte dei nostri ricordi senza che nemmeno ce ne siamo resi conto, senza chiederci il permesso.
Credo però che niente mi rimarrà impresso come i colori di questa terra. Tutto é avvolto durante il giorno in una luce intensa, quasi accecante, e solo la mattina presto o al tramonto si riescono a gustare le tonalità nel loro vero splendore. Ma il fatto é che, anche se nascosti, i colori sono sempre presenti, é impossibile non accorgersene. Il rosso della terra della savana in mezzo ai giganteschi baobab, paesaggio che tanto mi ha ricordato il bush australiano, si mescola a tratti col colore del deserto che avanza inesorabile. Anche la polvere é presente ovunque con la sua tinta quasi neutra, quasi fosse messa li apposta per aiutare la luce a frenare l’esplosione degli altri colori.
I vestiti delle donne, i secchi di plastica multicolore portati in equilibrio sulla testa, i turbanti blu dei Tuareg, l’arcobaleno del mercato di Djenne e del porto di Mopti sono immagini che ripagano da sole delle fatiche del viaggio.
Mi piace pensare che la gente voglia combattere le tante difficoltà e i problemi che questa terra presenta anche aiutandosi coi colori. C'é in Mali un’allegria, una cordialità e una semplicità che mi hanno colpito profondamente. Ovunque siamo stati, da Bamako ai villaggi dei pescatori nomadi sul Niger, non ci é mai stato negato un sorriso o un gesto di saluto.
Credo che questo viaggio non sia solo un modo per conoscere un pò di più culture affascinanti e ammirare da vicino paesaggi che ti lasciano senza respiro. Non é solo un'opportunità per dare un piccolo contributo ai progetti che vengono così coraggiosamente iniziati e portati avanti dai volontari locali tra mille asperità. Questo viaggio per me ha rappresentato soprattutto un modo per confrontarsi con questo popolo fantastico e per scoprire quanto in realtà abbiamo da imparare gli uni dagli altri.
Il mal d’Africa é già qui....
Il Sotramà (di Lucio Magi, Gennaio 2004)
Una delle esperienze da non perdere nella capitale del Mali é sicuramente quella di una corsa in Sotramá.
Io e Ada, assieme al più “esperto” Michele, ci siamo capitati quasi per caso, dopo che per sbaglio erano stati chiamati due taxi anziché tre, e ci serviva per raggiungere il resto del gruppo al mercato dell’artigianato.
Il Sotramá é il nome con cui sono conosciuti i furgoni-taxi collettivi che in pratica fungono da autobus nell'area urbana di Bamako. La descrizione del mezzo di trasporto in sé, un furgone colorato di verde spesso dalla dubbia capacità motoria, meriterebbe un capitolo a parte, ma quello che ripaga ampiamente del prezzo del biglietto é il servizio offerto.
Appena saliti eravamo gli unici tre passeggeri. L'uomo-porta, equivalente più o meno al nostro controllore, ci ha fatti entrare proferendo poche parole incomprensibili in dialetto Bambara. L'uomo-porta, come dice il termine stesso, fa le veci della porta del furgone che, al pari dei vetri dei finestrini, é inesistente. L'uomo-porta fa uso del suo corpo per evitare che i passeggeri salgano e scendano dal furgone senza avere pagato il biglietto. Oltre a questo l'uomo-porta funge anche da “buttadentro”. Per tutta la durata del viaggio ha il compito di urlare ai pedoni la direzione e il nome del capolinea, sperando che salgano più persone possibile. C'é infatti una concorrenza spietata tra i veicoli, che si susseguono a distanza ravvicinatissima quasi speronandosi, e non é raro vedere due uomini-porta azzuffarsi per accaparrarsi potenziali clienti.
A mano a mano che avanzava lento sulla strada, il furgone ha cominciato a riempirsi e poi, quasi pieno, si é lanciato improvvisamente all’impazzata in discesa su una delle tante strade non asfaltate e piene di buche. Riuscire a rimanere seduti senza sbattere la testa sul tettuccio o senza volare in avanti sulle braccia di un altro passeggero é un'impresa che richiede l'utilizzo di entrambe le mani. Una mano serve infatti per fissarsi alla panca di legno su cui si é seduti, mentre l’altra va usata per mantenersi diritti stringendo una delle sbarre di metallo che scorrono lungo il tetto. Quando in queste condizioni una delle donne sedute ha cominciato ad allattare, mi sono sentito veramente un povero turista lontano da casa.
La gente nel frattempo continuava a scendere e salire, a volte portando a bordo enormi sacchi che per forza di cose dovevano essere sistemati sotto i piedi. A un certo punto (posso giurare che non c'era più posto nel furgone), l'uomo-porta, che in realtà é un ragazzino di 12-13 anni, dall’alto della sua esperienza é riuscito a fare sistemare altre due persone, costringendo quelle già dentro a stringersi fino all’inverosimile. O almeno così credevo perché un minuto dopo l’uomo-porta, sfidando l'ira di noi passeggeri, é riuscito a ricavare ancora spazio per un'ultima persona. Per fortuna poco dopo é arrivata la nostra fermata ma come si può immaginare facilmente, l'uscita da Sotramá non é un’operazione priva di difficoltà. Piegandosi a 90 gradi per non sbattere la testa, cercando allo stesso tempo di non passare sopra i piedi degli altri passeggeri e i sacchi, e per di più col terrore che il mezzo ripartisse prima che potessimo farcela, siamo finalmente riusciti a scendere.
Anche questo fa parte del bello di questo paese..