Mongolia
Diario di viaggio (di Lucio Magi, Settembre 2005)
Siamo quasi arrivati. Abbiamo ritrovato la strada asfaltata solo da poco piú di mezz’ora e con lei le prime tracce di “civiltá”. I segnali stradali, i cartelloni pubblicitari scritti un po’in inglese e un po’ in cirillico stanno ad indicare che ci siamo.
L’asfalto porta il nostro van quattro-per-quattro su una piccola collina, un valico ridicolo rispetto a quelli a cui ci siamo abituati negli ultimi tempi.
Ormai me lo aspetto, ce lo aspettiamo tutti. Appena giunti sulla sommitá è come se qualcosa finisse, guardo dall’altra parte del crinale e mi prende un groppo in gola. È come un colpo allo stomaco la visione delle ciminiere di Ulaan Baatar, che per un attimo ti lascia quasi senza fiato.
Questo è il momento in cui ci si rende veramente conto di cosa rappresenta questo viaggio.
Entrando in cittá per la prima volta dopo settimane vediamo un semaforo e siamo costretti a fermarci perché ci sono altri veicoli, troppi, che devono anche loro usare la strada.
La strada.
È la stessa che è stata la nostra fedele compagna di viaggio e che ci ha portato benevolmente attraverso montagne, steppe e deserto, ma qui è come se avesse perduto la sua autenticitá, la sua essenza di strada.
La strada serve per portarti da un luogo all’altro, sterrata e polverosa. Sull’altopiano mongolo, fuori dalla capitale, si divide e si ricongiunge continuamente e ti da ancora il gusto (e qualche volta il brivido) di perderti.
Nelle steppe e nel deserto forma infiniti percorsi, tante piste formate dai solchi delle ruote dei fuoristrada che certe volte sembrano i binari all’ingresso di una grande stazione. Su quei binari ci siamo spostati per le ultime settimane e non ritrovarli piú è quasi, per assurdo, disorientante.
Siamo arrivati in hotel stanchi e completamente coperti di polvere, ma finalmente consapevoli di avere fatto un’esperienza indimenticabile.
Ecco, il rientro è senza dubbio il momento piú intenso. Senza il rientro non si riesce a gustare appieno il significato di nessun viaggio, ma questo è stato per me un rientro diverso, che mi ha tolto la voglia di parlare per diverse ore. Non mi era mai successo.
Il viaggio era iniziato circa tre settimane prima, dallo stesso punto.
Appena usciti dalla capitale, una cittá piú grande ma come le altre in Mongolia troppo ordinata, con troppe linee rette, giá si capiva che si sarebbe entrati in un’altra dimensione.
Il paesaggio a prima vista non aveva niente di originale, almeno per chi ha giá visitato altri paesi cosí sconfinati.
Una grande pianura che diventa improvvisamente collina e poi montagna, per poi tornare pianura. Per giorni e giorni è come viaggiare su un gigantesco ottovolante.
Si attraversano immense foreste di conifere, fiumi prosciugati e si valicano passi di montagna.
I laghi del nord poi sono uno spettacolo da non perdere. Nel Khogsvul l’acqua é cosí cristallina che cambia colore a seconda della profonditá.
A un certo punto si inverte direzione e si punta a sud. Dopo avere attraversato la steppa per diversi giorni, si punta verso Karakorum, l’antica capitale dell’impero di Gengis Khan, e quindi ancora piú a sud, fino a incontrare il Gobi.
Qui vengono a mancare anche gli unici riferimenti, i profili delle montagne, e ci si sente spiazzati. In alcuni momenti si è isolati, alla deriva, in altri si crede quasi di potere scorgere la curvatura terrestre o di poter toccare il cielo.
Si è giá detto e scritto tanto sul famoso cielo blu della Mongolia, sulla sua immensitá, sul suo colore che sembra innaturale e sulle sue nuvole che giocano a proiettare ombre ovunque.
Questo cielo deve essere piú vicino alla terra degli altri, non trovo altra spiegazione. Di notte poi la sensazione è ancora piú forte, è come se quasi si potesse avvertirne il peso. Un’infinitá di stelle si accendono e la Via Lattea si mostra inconfondibile, sembra che possano caderti addosso da un momento all’altro.
Poi mentre si macinano chilometri su chilometri, quando ormai l’occhio si é abituato a mettere a fuoco solo punti lontanissimi e ci si é adattati a questa dimensione un po’magica, quasi per incanto nel dormiveglia si scorge una Ger o una mandria di yak e il sogno si interrompe, ci si rende conto che é tutto vero.
Viaggiare on the road sull’altopiano mongolo é un po’come assistere a uno spettacolo in teatro con lunghissimi intervalli tra una scena e l’altra. Vengono cambiati alcuni pannelli della scenografia, ma il palcoscenico resto lo stesso per giorni e giorni.
Su di esso si susseguono di volta in volta vari personaggi: cavalieri solitari, pastori in motocicletta che radunano le mandrie, monaci buddisti vestiti dei loro colori, e bambini che corrono ai lati delle strade polverose per vendere l’Airag.
I bambini qui non sono ancora abituati ai turisti, non chiedono mai niente.
Si avvicinano timidamente solo se chiamati, e ricevono ogni piccolo regalo in silenzio, porgendo entrambe le mani a palmi in su, come se fosse un tesoro preziosissimo.
Questa gente è cosí, semplice e genuina. Ma è soprattutto gente libera, abituata a rispettare la terra e non a possederla.
È gente che è abituata all’infinito e al silenzio.
A Hongoriin Els, nel Gobi, scalando le dune di sabbia, ho provato una sensazione nuova che invece per i nomadi deve rappresentare la normalitá. Stavo camminando da solo, in un avvallamento tra le dune a qualche decina di metri dagli altri e mi sono fermato. Non c’era un filo di vento e per la prima volta in vita mia ho ascoltato il silenzio, un silenzio credo molto vicino a quello assoluto.
La Mongolia è tutto questo, è una terra schietta e ancora vergine al turismo, dove per viaggiare occorre avere spirito di adattamento e pazienza.
È un paese (per fortuna) non ancora pronto ad accogliere autobus carichi di visitatori e che per questo va vissuto lentamente e attentamente, lasciandosi trasportare chilometro dopo chilometro, assaporando le sensazioni, le immagini e la musica che ti sa regalare quando meno te lo aspetti.
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